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Thursday, 12 October , 2006 / francemo

La storia della questione rosminiana


Per “questione rosminiana” si intende la discussione nata su due pronunciamenti della Santa Sede sul pensiero e le opere di Antonio Rosmini che apparivano controversi:

  1. il “Dimittantur”, ovvero il Decreto della Sacra Congregazione dell’Indice del 3 luglio 1854, nel quale le opere del Rosmini vennero prosciolte da ogni accusa e dubbio di eresia e di errore contro la fede
  2. il “Post obitum”, ovvero il Decreto della Congregazione del Sant’Ufficio del 14 dicembre 1887 e reso pubblico il 7 marzo 1888, in cui venivano condannate quaranta proposizioni tratte dalle opere postume di Rosmini, «le quali non sembravano consone alla verità cattolica»

I due Decreti presentavano, per quanto non affrontassero le stesse opere ma comunque il pensiero del medesimo autore, due soluzioni diametralmente opposte: da ciò nacque la “questione rosminiana”.
Il problema e il dibattito intorno al sistema e al pensiero di Rosmini ha radici anteriori ai due decreti pontifici e muove da molto tempo prima con tutta una serie di avvenimenti di cui bisogna tener conto.
1. La prima polemica: il “Decreto del silenzio” imposto da Gregorio XVI nel 1843.
La prima polemica e forte contestazione del pensiero rosminiano è originata dalla pubblicazione di un’opera del Roveretano intitolata “Trattato della Coscienza Morale”, avvenuta nei primi mesi del 1840.
Le accuse mosse in questa prima polemica nacquero dalla rigorosità con cui l’autore conduceva il suo discorso contro il lassismo, ma soprattutto da alcune interpretazioni date dall’autore sulle nozioni di «peccato» e di «colpa» mentre “di passaggio” si soffermava sulla dottrina del peccato originale.
Questa prima polemica era conseguenza della «sfida che fin dal periodo giovanile Rosmini affronterà con tutte le sue forze ed è quella relativa alla possibilità di tentare un fecondo innesto della fede cristiana nella modernità filosofica, attraverso un «progetto culturale», atto ad elaborare una enciclopedia cristiana da contrapporre a quella razionalistica del secolo dei Lumi e dei suoi rappresentanti» (G. LORIZIO Il rosminianesimo e le sue vicende fra rivendicazioni di ortodossia e sospetti di eresia, in “Osservatore Romano”, 5 luglio 2001).
A questa prima polemica fu posto termine dalla Santa Sede, quando il 1 marzo 1843 papa Gregorio XVI indisse una Congregazione di sette cardinali e, sentito il loro parere, impose con decreto il silenzio ad entrambe le parti: Rosmini e i suoi avversari.
Se la polemica era sopita, la questione però non era risolta ed il fuoco covava sotto la cenere.
2. La seconda polemica: la messa all’Indice nel 1849 delle opere “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” e “La costituzione civile secondo la giustizia sociale”
Le opposizioni alle dottrine rosminiane e le accuse al Rosmini stesso di errori contro la fede, dopo il periodo romana, si fecero più ardite e forti.
Fin dal gennaio 1848 era uscito un opuscolo anonimo intitolato “Postille alle dottrine rosminiane”; l’autore venne facilmente individuato: era il padre Antonio Ballerini, gesuita. Sempre del medesimo, ma con uno pseudonimo, era uscita nel 1850 a Milano un’opera in due volumi intitolata “Principi della scuola rosminiana esposti in lettere familiari da un prete bolognese”.
A questi due testi si aggiunse nel 1851 un poderoso saggio del conte Avogadro della Motta sul socialismo. L’influsso di questi scritti antirosminiani sui vescovi fu notevole: si chiedeva a Pio IX al più preso una condanna definitiva delle dottrine rosminiane.
Pio IX commise nel 1850 alla Congregazione dell’indice il compito di esaminare le “Postille” e di giudicare delle accuse contenute in esse. Il 19 dicembre 1850 si ebbe il rescritto della Congregazione generale col quale le “Postille” vennero rigettate riconoscendone la falsità; ma non furono proibite perché, a detta di alcuni, nessuno le aveva denunciate, o perché, a detta di altri, non vi si riscontrarono i caratteri di libello infamante.
3. La pagina dell’Indice dei Libri Proibiti dove appare la condanna delle opere di Rosmini.
Non passarono molti anni quando con la salita al soglio pontificio di Pio IX, la polemica contro Rosmini tornò ad incendiarsi, aggravata da motivazioni politico ecclesiastiche che si aggiunsero a quelle teologiche. È di questo periodo la vicenda romana di Rosmini, dapprima con la missione diplomatica presso la Santa Sede, affidatagli dal governo piemontese e poi nel suo servizio al Sommo Pontefice il quale aveva l’intenzione di crearlo cardinale.
Entrambe terminarono con un fallimento, la prima per il cambiamento di finalità della missione e la seconda per l’accanirsi contro il Roveretano dei suoi avversari.
La polemica si incentrò intorno a due opere che Rosmini aveva pubblicato nel ’48 e nel ’49: “Le cinque piaghe della santa Chiesa” e “La costituzione civile secondo la giustizia sociale”.
Gli avversari ebbero la meglio e i due scritti furono posti all’Indice nel giugno 1849; la condanna fu notificata al Rosmini il 13 agosto, ad Albano dove risiedeva. Egli prontamente si sottomise: «Coi sentimenti del figliolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore e me ne sono anche pubblicamente professato, io Le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile: pregandola di assicurare di ciò il Santissimo nostro Padre e la Sacra Congregazione».
L’effetto di questa condanna si fece presto sentire e, di fronte al vivace dibattito, molti vescovi si preoccuparono di precisare al proprio clero e ai propri fedeli quale atteggiamento bisognasse tenere. Una grave ombra di sospetto, non solo in campo scientifico, cadde su Rosmini e sulla vita delle case dell’Istituto della Carità da lui fondato.
Il livore delle accuse però, invece di diminuire crebbe di tono e divenne così aspro e virulento da indurre Pio IX nei primi mesi del 1851 a rinnovare ad ambedue le parti il decreto del silenzio che già il suo predecessore Gregorio XVI aveva imposto nel 1843.
4. L’esame delle opere di Rosmini e il decreto «Dimittantur opera omnia» del 1854.
Pio IX intendeva arrivare a risolvere definitivamente l’aspro contrasto e non si accontentò di imporre il silenzio; a metà del 1851 affidò alla Congregazione dell’Indice il compito di esaminare le “Lettere bolognesi” con l’ “Appendice” del Della Motta e tutte le opere del Rosmini. Scelse lui stesso sei consultori a cui successivamente ne aggiunse altri due; l’esame si protrasse per quattro lunghi anni.
Il 3 luglio del 1854 si tenne la Congregazione Generale con la presenza di tutti i consultori e di otto cardinali; il papa stesso, fatto straordinario, volle presiederla. Tutti, meno uno, convennero che le opere di Rosmini erano immeritevoli di censura, ma non si trovò concordia in merito all’esprimere una formale condanna dei libelli antirosminiani. Dopo cinque ore di discussione, raccolti tutti i pareri, il papa decise di riservare a sé il giudizio definitivo sulla questione.
Dopo diverse esitazioni, l’intenzione di scrivere un breve pontificio, pubblicazione aperta della sentenza, tenuto conto dei vari aspetti della situazione e della somma delicatezza dell’affare, Pio IX si risolse nel far redigere dalla Congregazione, secondo la sua mente, la sentenza di «dimissione» dalle accuse e di farla comunicare “in secretis”, e non pubblicamente, alle due parti.Il Decreto noto come «Dimittantur» fu comunicato a voce al procuratore di Rosmini a Roma, don Bertetti, il 10 agosto e poi ai primi di settembre don Bertetti lo ebbe per iscritto, in esso venivano assolte le opere di Rosmini, ma non venivano condannati i libelli diffamatori.
5. Dopo il “Dimittantur”.
Gli effetti tanto sperati da Pio IX dal decreto della Congregazione dell’Indice non sortirono affatto. Immediatamente gli avversari di Rosmini si adoperarono per mezzo dei giornali culturali di allora perché non si diffondesse la notizia della sentenza di assoluzione e quando ciò divenne impossibile, incominciarono a far circolare interpretazioni o riduttive, od accomodate ai propri fini.
Neppure la morte di Rosmini, avvenuta il 1 luglio 1855, ad un anno di distanza dal “Dimittantur”, valse a stemperare e gli attacchi e le difese.
Dopo un breve periodo di apparente quiete, quando cominciarono ad essere pubblicate alcune opere postume del Roveretano, lo scontro si riaccese giungendo via, via a toni sempre più aspri, soprattutto intorno all’affermazione di un contrasto sostanziale tra Rosmini e San Tommaso.
La Santa Sede dovette intervenire più volte per ribadire il vero senso del “Dimittantur”, o attraverso il Maestro del Sacro Palazzo, o attraverso la stessa Sacra Congregazione dell’Indice, ma con scarsi risultati. «Si assistette così al costituirsi di una sorta di scolastica rosminiana, che, contrapponendosi alla neoscolastica tomista, rischiava di operare a scapito dell’ortodossia del pensiero rosminiano» (G. LORIZIO, cit.).
Oltre alle polemiche portate avanti dai periodici culturali di entrambe le parti, uscirono studi e libri, chi pro, chi contro. Dei primi ricorderemo la poderosa e vasta opera di mons. Pietro Maria Ferrè, vescovo di Casale, intitolata Degli universali secondo la teoria rosminiana confrontata con la dottrina di S. Tommaso, ed uscita dal 1880 al 1886 in undici volumi.
Tra i secondi ricordiamo la figura del gesuita padre Giuseppe Maria Cornoldi che pubblicò nel 1881 un’opera dal titolo “Il rosminianismo, sintesi dell’ontologismo e del panteismo”.
«I testi del Cornoldi, che nel 1881 aveva dedicato diversi articoli alla Teosofia rosminiana, esprimono in pieno questo clima di aspre controversie dottrinali. Uno storico ben documentato come Luciano Malusa, scrive a riguardo: «L’esame predisposto dal Cornoldi sulla Teosofia comporta per la prima volta un diretto attacco all’ortodossia di Rosmini. Il gesuita fa conoscere al pubblico anche dei non addetti ai lavori la Teosofia: ne fa una specie di riassunto, per quel che è possibile, data la complessità della materia, lamentando proprio questo limite dell’ampiezza e della difficoltà del linguaggio e delle argomentazioni, e poi presenta una confutazione di essa che riprende le accuse di ontologismo e formula invece in modo articolato le accuse di panteismo ontologico, dirigendole ora esplicitamente verso il pensiero di Rosmini» (A. MALUSA, L’ultima fase della questione rosminiana e il decreto «Post obitum», Sodalitas, Stresa 1989, p. 34). L’opera del Cornoldi non può non aver influenzato il lavoro dei censori e in particolare quello di coloro che hanno provveduto alla stesura delle Quaranta proposizioni …» ((G. LORIZIO, cit.).
In quegli ultimi decenni del XIX secolo la polemica prese anche un’ulteriore grave risvolto al di fuori del dibattito teologico e filosofico. «… dopo l’occupazione di Roma, a rendere ancora più profondo il solco – se non addirittura l’abisso – tra accusatori e difensori di Rosmini, si aggiunse il fatto che i “rosminiani” erano generalmente in favore di un’intesa fra Stato e Chiesa: “conciliatoristi”, come si chiamavano. E gli “antirosminiani” erano schierati sull’altra sponda, quella degli “intransigenti” […] In particolare, poi, non poteva non preoccupare le autorità ecclesiastiche il fatto che i riflessi della polemica entravano anche nei seminari […] Infine, quel “battagliare” tra esponenti del clero, sia diocesano, sia regolare, non poteva essere di edificazione ai fedeli … Un intervento autorevole era ormai sentito necessario e improrogabile […]» (R. BESSERO–BELTI, La questione rosminiana, Stresa, 1988).
6. La condanna delle “Quaranta proposizioni” con il decreto “Post obitum” della Congregazione del Sant’Ufficio (1888).
La pubblicazione dell’Enciclica Æterni Patris di Leone XIII (4 ottobre 1879) fu salutata dagli avversari di Rosmini come un’implicita condanna del suo sistema e si parlò esplicitamente ed apertamente di un sistema affetto da errori di ontologismo, panteismo, confusione dell’ordine naturale col soprannaturale, traducianismo o generazionismo.
Con un tale clima il prevedere una probabile condanna di Rosmini appariva quasi inevitabile, e così fu.
Il 7 marzo 1888 con una lettera del segretario della Congregazione del Sant’Ufficio, Card. R. Monaco, veniva comunicato a tutti i vescovi il Decreto “Post Obitum” con cui venivano condannate 40 proposizioni tolte dalle opere postume di Antonio Rosmini.
Il Decreto porta la data del 14 dicembre 1887. Due consultori vennero chiamati ad esprimere il loro giudizio: P. C. Mazzella e Msgr. Fr. Satolli. Il gesuita Mazzella propone due possibilità: «un atto Pontificio, col quale si condannasse la Teosofia di Rosmini indicandone i precipui errori come Pio IX aveva fatto nel 1857 con Gùnther». Oppure «un mezzo più mite, cioè dichiarare una serie di proposizioni della Nota e del suo Voto con la qualifica: “tolerari non possunt” ovvero “tuto doceri non possunt”». Mazzella stesso quindi oscilla fra ha qualifica «erroneo» e «non tuto». Msgr. Satolli, pur essendo molto critico si orienta diversamente: ritiene infatti che Rosmini abbia mantenuto «razionalmente tutti i dogmi», ma che il suo sistema non possa essere approvato … Ambedue i censori concordano indirettamente nel ritenere che Rosmini abbia inteso mantenere tutte le verità cattoliche, senza negarne alcuna e che sia, piuttosto, il suo sistema a risultare inaccettabile. (Cfr. K. J. Becker, Sviluppo e coerenza delle interpretazioni magisteriali del pensiero rosminiano, in: “Osservatore Romano”, 30 giugno – 1 luglio 2001, p. 5).
Che non tutto sia corso liscio, potrebbe arguirsi dalla formulazione del decreto, in cui, pur dopo tante aperte imputazioni degli avversari di Rosmini, non si fa cenno alcuno di eresie o di errori, né si ritiene di introdurre neppure la più tenue delle note teologiche, riguardo alle XL Proposizioni, ricorrendo invece a una formula piuttosto generica e forse non molto usitata: haud consonæ videbantur catholicæ veritati (cfr. PAGANI–ROSSI, Vita di Antonio Rosmini, Rovereto, Manfrini, 1959, vol. II, p. 711).
Delle 40 proposizioni condannate dal decreto del Sant’Ufficio, 21 sono tratte dalla Teosofia, lasciata incompiuta da Rosmini e che rappresenta senza dubbio la sua più alta speculazione filosofica; 9 sono tratte dall’Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata, una profonda meditazione filosofica, teologica ed ascetica sul prologo di S. Giovanni, anch’essa lasciata incompiuta dall’autore; le altre 10 proposizioni sono prese da altre opere di Rosmini gia esaminate e “prosciolte” dal decreto “Dimittantur” del 1854, ma che anche da queste opere si siano tratte proposizioni da condannare, nel Decreto si spiega col dire che in dette opere le dottrine condannate si trovavano già «in germe».
La loro formulazione risulta composita e complessa: alcune risultano composte prendendone parte da un contesto e parte da un altro contesto della stessa opera, altre addirittura prendendone parte da un’opera e parte da un’altra. Per un loro approfondimento si rimanda ai molteplici studi che in quest’ultimo secolo sono stati pubblicati.
7. Dal “Post Obitum” alla “Nota” della Congregazione per la dottrina della fede del 1 luglio 2001
Mentre gli avversari, facendosi forti del Decreto, continuarono ancora a sostenere che l’intero sistema rosminiano era gravemente infetto da errori contro la fede, i suoi sostenitori lavorarono per dimostrare come queste proposizioni non rispecchiassero il vero pensiero di Rosmini.
Con il passare dei decenni, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, a poco a poco la polemica si è fatta più pacata e serena, permettendo studi più oggettivi e, come afferma la “Nota” della Congregazione per la dottrina della fede, «si deve riconoscere che una diffusa, seria e rigorosa letteratura scientifica sul pensiero di Antonio Rosmini, espressa in campo cattolico da teologi e filosofi appartenenti a varie scuole di pensiero, ha mostrato che tali interpretazioni contrarie alla fede e alla dottrina cattolica non corrispondono in realtà all’autentica posizione del Roveretano» (Nota, 6).
Questa proficua indagine scientifica è approdata lo scorso 1 luglio 2001 nella pubblicazione Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sul valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do Sacerdote Antonio Rosmini Serbati

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